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Sinistra, se ci sei batti un colpo

Con Renzi segretario del PD, per la prima volta gli eredi del PCI si ritrovano ad essere minoranza in un partito dove è sempre stata maggioritaria la loro presenza. Un cambio di verso che crea molti dubbi tra i militanti e ripropone il dilemma di sempre: quanto il PD è rappresentativo della sinistra?

In tempi procellosi come quelli che stiamo vivendo, corre l’obbligo di farci una domanda, porci un interrogativo: ma la sinistra esiste ancora?
Senza prenderla troppo da lontano, limitandoci ad osservare i fatti così come si sono evoluti (o involuti, dipende dai punti di vista) da un anno a questa parte, pur non volendo smentire quanto asserisce il nuovo capo del governo, nonché segretario del Partito Democratico, possiamo solo osservare che non esiste più, o si è frantumata, una certa idea di sinistra; quella legata alla tradizione, a un’ideologia, ad alcuni suoi principi, la stessa che faceva riferimento a un soggetto sociale ben definito: il salariato, meglio se operaio in una fabbrica metal-meccanica. E il paradigma era quello delle lotte proletarie, con tutto il portato ideologico e culturale che ne seguiva. Ma in una società frammentata e trasformata come la nostra, dove il massimo dell’oppressione non è più rappresentato dalla condizione comunque nobile dell’operaio, priva del sole dell’avvenire, è naturale che accada quello a cui assistiamo oggi venuto meno l’oggetto della discussione. Cambiano i paradigmi, e quasi non ci meravigliamo di sentire il segretario del PD che dichiara convinto che l’essenza della sinistra è nel cambiamento: “la sinistra che non cambia diventa destra”, sostiene Renzi, assumendo il cambiamento come un valore in sè, privo del legittimo dubbio che cambiare si può anche in peggio. Un esempio di come un principio della dinamica si trasforma in concetto politico. Eppure una volta non era così, le classi sociali subalterne avevano una rilevanza strategica nell’azione dei partiti di sinistra. Oggi assistiamo ad un sostanziale cambio di priorità. Non che gli operai siano spariti, semplicemente per il nuovo capo del PD non rientrano più tra gli oggetti della nostra realtà sensibile. Sono o delocalizzati o in via di delocalizzazione.
E’ chiaro che in un mondo in cui hanno già deciso tutto i detentori del capitale, i fautori dei nuovi equilibri geopolitici, e la produzione si è spostata in aree eternamente in via di sviluppo, prive di libertà personali e politiche, diventa difficile organizzare la lotta sul modello marxista invocando la coscienza di classe e l’unità dei proletari. Sopravvive forse solo il materialismo storico, nella convinzione che dietro certe svolte epocali non c’entrano niente la morale o il senso della giustizia sociale, ma solo ed esclusivamente i rapporti di forza. Per immaginare la rivoluzione manca un presupposto: la democrazia.
Una grande e vera sinistra, oggi, dovrebbe passare per questo crinale, per una piena presa di coscienza che il nemico di sempre (il capitale) sta vincendo in quanto ha soppresso non solo gli argomenti della dialettica tradizionale, ma la dialettica in quanto tale. Eliminata la grande fabbrica si cancella la classe operaia. E se si cancella la classe operaia di che si discute e con chi?
Non riconoscerlo può portare all’anacronismo, rendersene conto può aiutare a capire come mai le organizzazioni tradizionali e rappresentative della sinistra nella società sono oggi fortemente in crisi, ad iniziare dal sindacato. Il caso della CGIL è emblematico, a partire dalla lotta interna alla confederazione che, non a caso, vede gli uni contro gli altri armati proprio la segreteria confederale e la FIOM, cioè il sindacato dei metalmeccanici: quelli che rappresentano meglio di tutti il paradigma tradizionale. Al di là della miccia che ha scatenato l’esplosione, e delle questioni puramente tecniche, pertanto poco comprensibili ai più, la sfida è di tipo culturale tra la confederazione che drammaticamente prende coscienza di non essere più rappresentativa di una buona parte dei lavoratori (come invece era in passato) mentre lo è soprattutto dei pensionati, e un sindacato (quello dei metalmeccanici CGIL) che altrettanto drammaticamente non ha ancora fatto i conti con l’anacronismo di certe loro posizioni. Il capitale è stato furbo, ha spostato altrove la materia del contendere, di modo che nei paesi industrializzati i suoi antagonisti perdessero potenza di fuoco e potere negoziale. Ad oggi, ricorrere ad una vertenza sindacale non vuol dire più giocarsi una partita dalla quale si può uscire vincitori o perdenti ma comunque con la certezza che la controparte sia sempre in campo; piuttosto vuol dire correre il rischio che ad un certo punto l’avversario ritiri la squadra lasciandoti solo.
E’ lapalissiano che se i sindacati non sono più in grado di difendere i lavoratori perché hanno perso potere negoziale, ed alcuni loro interventi possono risultare addirittura peggiorativi della condizione del salariato, ha poco senso parlare anche di sinistra nell’accezione tradizionale, se prima non si introducono importanti correttivi. In un contesto come questo, l’irresistibile ascesa del governo Renzi è la minaccia più grave che può arrivare a quel mondo, la morte definitiva di quel paradigma, della sinistra così come l’abbiamo conosciuta finora, con qualche suo pregio e con i suoi numerosi limiti. Renzi non si è fatto scrupoli sul piano culturale prima ancora che politico. Il paradigma l’ha ribaltato subito. Niente più lotta di classe, niente più operai contro capitalisti. Il problema numero uno per Renzi e la sua fidata accolita di economisti, non è la mancanza di posti di lavoro rosi dalle delocalizzazioni, dalle politiche liberiste, dal prevalere della finanza sulla produzione di beni e servizi, piuttosto l’ingiustizia della loro distribuzione. La batracomiomachia di Renzi è tra lavoratori garantiti e lavoratori non garantiti. Ha scoperto, l’Uomo nuovo, che da quando vi è la crisi (provocata dai crack del 2008 e dallo scoprimento che i grandi finanzieri giocavano con titoli legati a mutui casa contratti da chi non era in grado di ripagarseli) a rimetterci sono stati soprattutto i lavoratori privi di un contratto a tempo indeterminato. Grande scoperta quanto ovvia. Il problema semmai sarebbe tutta quella legislazione, sposata anche a sinistra e supina verso il main stream del liberismo, che in quest’ultimo ventennio ha tentato di cancellare benefici e conquiste delle lotte sindacali e politiche, e tra queste il concetto che il lavoro non è una merce e che in esso vi risiede gran parte della dignità dell’uomo. In ossequio ad un concetto mutuato direttamente dall’iperliberismo ed accettato a sinistra negli anni scorsi perché ritenuto più a la page rispetto ai vecchi principi, si è preferito invece cedere alla compravendita a tempo di posti di lavoro, a prezzi scontatissimi e con oneri sociali irrisori per le aziende. Si esordì con il pacchetto Treu, poi la destra completò il lavoro con la legge Biagi. Basterebbe ricordare questi semplici episodi per far apparire incomprensibile la meraviglia dell’Uomo nuovo. Ma, evidentemente, per lui e per la sua personale squadra di economisti, tra i quali spicca Taddei, il problema non è questo. Lamentano, infatti, dopo attenta analisi dei dati (numeri perlopiù) che la disoccupazione ha colpito e colpisce soprattutto i giovani lavoratori, dei quali oggi solo uno su due può vantare di lavorare più o meno stabilmente. Da qui l’impeto riformatore, non tanto di stabilizzare i precari, quanto quello più anodino di rendere meno stabili i garantiti. Con i provvedimenti fin qui varati, i concetti esplicitati dai Renzi’s boys sono rimasti chiacchiera da salotto televisivo della domenica pomeriggio. Il tanto propagandato Jobs Act corre il rischio di diventare un topolino partorito dalla montagna, e di sicuro e concreto vi è ora un decreto che, contrariamente a quanto solennemente declamato durante le Primarie del PD, riabilita il lavoro a tempo determinato prima vituperato; lo rafforza e lo rende addirittura più stabile, a conferma del detto che in Italia non vi è nulla di più definitivo del provvisorio, con buona pace del contratto unico a tempo indeterminato a tutele crescenti. Mentire per i politici è un po’ come andare in macchina per gli automobilisti, fa parte del loro mestiere. Al di là di questo, stupisce che leader di sinistra considerino un problema il fatto che qualcuno lavori in pianta stabile, un garantito (come dicono loro). E’ grazie a quei garantiti che la difficile crisi economica italiana non si è trasformata in drammatica, se non tragica, crisi sociale. Provate a immaginare cosa accadrebbe se tutto quel welfare famigliare basato non solo sui pensionati, ma anche su chi ha un lavoro stabile e garantisce parametri quantomeno decenti di vita a figli trentenni disoccupati o male occupati dovesse venir meno.
Appurato che Renzi non può essere considerato di sinistra, almeno nel senso classico di una sinistra legata ai suoi ideali, ai suoi valori e ai suoi principi, torno a chiedermi se esiste ancora una sinistra. E’ possibile oggi rielaborare concetti di sinistra che non siano quelli dell’Uomo nuovo, dopo aver preso coscienza delle mutate situazioni? Sarà’ da scoprire. Intanto al momento non sembrano ricorrere tali condizioni. Il Partito Democratico dice di essere riformista, forse più nelle parole che nei fatti e comunque per pura definizione identitaria o lessicale. Ma dopo il fallimento di Bersani di formare un governo nel 2013, i ranghi della sinistra si sono ridotti proprio in quel partito che si definiva riformista e progressista, in opposizione al velleitarismo di certi piccoli partiti che si richiamano alla sinistra nel simbolo e nell’ideologia, ma con il difetto di un peso specifico assolutamente irrisorio. Dopo l’ultimo congresso del Partito Democratico la componente di sinistra ha subito un autentico tracollo, tanto che oggi tutto è diventato più difficile.

Sabino Saccinto

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Pubblicato il 28/04/2014 h 11:14:30
Modificato il 29/04/2014 h 00:04:47

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