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Il lavoro secondo Matteo

Le modifiche alla legislazione sul lavoro sono una costante degli ultimi vent’anni. Il Jobs Act renziano rientra tra quei diversivi a cui siamo abituati. Ciclicamente qualcuno si illude di movimentare il mercato del lavoro cambiandone le regole e magari per un po’ funziona, ma poi inevitabilmente si ricade nel nulla. Fu così quando a far partire le prime forme di flessibilità fu l’allora ministro Tiziano Treu, fino alla Legge Biagi, l’apoteosi della precarietà, tanto che alcune forme contrattuali introdotte allora da Maroni oggi sono deprecate.

Non possiamo certo dire che le aziende e gli imprenditori in questi anni non abbiano gradito, visto che quando hanno potuto assumere lo hanno fatto quasi solo ed esclusivamente ricorrendo a quelle forme contrattuali. Oggi vanno pazzi per le tutele crescenti non perché ritengano che i lavoratori italiani godano di troppi diritti, più semplicemente fanno gola la decontribuzione e gli sgravi fiscali, oltre alla libertà di monetizzare, senza grandi impegni, anche i licenziamenti di massa, una volta sottoposti a procedure defatiganti. E’ questa la cifra della classe dirigente ed imprenditoriale italiana, quella a cui il Renzi liscia il pelo. Uomini e donne che in questi anni si sono impegnati su due fronti particolarmente caldi: la delocalizzazione che svuota i territori dove le loro fabbriche sono nate e cresciute, le commodity (acqua, energia, ciclo dei rifiuti) che rendono più facili e meno rischiosi i loro investimenti.
Sull’imprenditoria di casa nostra non si è scritto molto, anche perché quelli sono tipini abbastanza potenti dalla querela facile, che non gradiscono che si mettano in discussione i dogmi culturali su cui il capitalismo nostrano negli ultimi vent’anni ha alimentato la sua formidabile macchina del consenso, realizzando di fatto la sua egemonia culturale, alimentata dai miti dell’imprenditore serio e lavoratore costretto a combattere eroicamente fra orde di dipendenti fannulloni (meglio se pubblici) e politici naturalmente ed inevitabilmente corrotti. Ed intanto i buoni e bravi imprenditori esportavano valuta all’estero, perdevano progressivamente le loro capacità industriali e prediligevano sempre più la finanza, i soldi fatti coi soldi, i guadagni istantanei.
Lorsignori non pagano mai pegno e trovano sempre la maniera per cadere in piedi e far la morale all’universo mondo dalle testate televisive che in un qualche modo controllano, e lo fanno sempre con l’aria fugace e sbrigativa da chi ha qualcos’altro di importante da fare, di chi sa di essere essenziale per questo pianeta. Sono questi i soggetti su cui l’attuale governo punta le sue fiches.
La passione di Renzi per il CEO della Fiat, Marchionne, è cosa nota. Il premier sedicente di sinistra non perde mai occasione per farsi vedere insieme, per inaugurare una qualche fabbrica sul globo, immemore che Fiat ha da poco trasferito la sede legale altrove, dove le tasse si pagano meno. Ma il suo feeling non si limita ai successi o agli insuccessi dell’uomo con il maglione. Recentemente lo ha addirittura dipinto come una sorta di uomo invincibile nella lotta impari con il sindacato dei metalmeccanici, la FIOM di Landini, che qualcuno già vede come concorrente politico del premier, pronto a soffiargli i voti in libera uscita dal PD. Secondo il Fiorentino, Landini si sta per dare alla politica dopo una dirigenza fallimentare nel sindacato, in seguito alle battaglie perse proprio contro la Fiat di Marchionne.


Venerdì 20 febbraio 2015, il Governo Renzi ha licenziato i primi e più significativi decreti della legge delega sul lavoro, meglio nota come Jobs Act, quelli che in sostanza consentono di superare l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e di istituire una nuova forma contrattuale di lavoro, rottamando il vecchio contratto a tempo indeterminato e sostituendolo con uno, sempre a tempo indeterminato, ma a tutele crescenti, che, se vogliamo, è una sorta di ossimoro: se le tutele sono crescenti, ci sarà un momento in cui si godrà di poco o punto tutele, all’inizio di un rapporto di lavoro magari, quando si potrà essere licenziati il giorno dopo senza alcuna speranza di reintegro. Lo prevede la legge. Jobs Act, all’inglese, lingua a cui si ricorre spesso quando da qualche parte si nasconde una fregatura.
Ciò è avvenuto con l’opposizione di quasi tutti i sindacati che, ad eccezione della CISL, già avevano indetto uno sciopero generale nel dicembre scorso, e di parte del partito di cui il premier è segretario, il PD, che ha mal digerito i provvedimenti già discussi in Parlamento e contro i quali ha sempre manifestato una certa contrarietà. Non è mancata la presa di posizione della presidente della Camera Laura Boldrini, espressione di SEL, che ha criticato il capo del governo, definendolo un uomo solo al comando, e ha rappresentato la sua amarezza per la scelta del governo di non aver tenuto nel debito conto le osservazioni e i rilievi della Commissione parlamentare incaricata di esaminare ed esprimere un parere, per legge non vincolante, sul contenuto dei decreti. A ciò si è sommato un fatto alquanto strano sui licenziamenti collettivi. In Parlamento non se n’era mai discusso durante l’approvazione della legge delega, ma il Governo ha inteso compiere una piccola forzatura facendole rientrare nel decreto. Piccola per niente, visto che gli esodi di massa dalle aziende sono già regolati, prevedono iter più articolati che agli occhi dei semplificatori renziani devono essere apparsi farraginosi, dispendiosi e poco adatti alle esigenze delle aziende moderne, tese come sono a far strame di diritti e di operai. Secondo alcuni parlamentari dell’opposizione, ci troviamo di fronte ad un chiaro caso di abuso di delega, un motivo tale da invalidarla. Sull’argomento il Governo ha fatto spallucce e l’ha approvata comunque.
Il giorno dopo, Massimo Riva, firma storica del gruppo L’Espresso – Repubblica, e ricordato per i suoi pungenti quanto indignati articoli sul capitalismo amorale e familistico italiano, nonché inventore del termine razza padrona – riferita ai potenti boiardi dell’industria di Stato anni “70 – ha commentato così l’accaduto su Repubblica di sabato 21 febbraio 2015: “Per Silvio Berlusconi l’intervento sull’articolo 18 non aveva soltanto una valenza di genere economico ma anche, anzi soprattutto, di tipo politico. La modifica legislativa nasceva dall’intenzione, neppure tanto dissimulata, di perseguire attraverso una modifica dei rapporti di forza sui luoghi di lavoro anche l’obiettivo di mettere all’angolo il potere tanto dei sindacati quanto dell’opposizione politica della sinistra”. Prosegue più in là: “Matteo Renzi ha avuto l’intelligenza di tenere la questione dei licenziamenti su un terreno sgombro da retro pensieri politici potendo spendere anche la moneta del suo essere segretario del maggior partito della sinistra.”
Francamente non so quanto Massimo Riva creda a quello che scrive, ma sui provvedimenti del Governo Renzi mi piacerebbe fare qualche piccola riflessione, iniziando dal moto e dal portato ideologico che sta alla base delle leggi renziane sul lavoro, espresso talvolta tramite dichiarazioni di uomini e donne a lui molto vicini, ad esempio del responsabile economico del partito, Taddei, che già ci illuminava allora con le sue anticipazioni sulla futura legislazione del lavoro, ponendo una questione reale, vera e drammatica come il precariato di un’intera generazione, a cui faceva seguire risposte non certo morbide con il mondo del lavoro, quasi che la causa dei contratti precari non risiedesse nelle leggi sul lavoro che da Treu a Biagi hanno reso oltremodo conveniente assumere con contratti atipici estremamente flessibili quanto evanescenti; per Taddei, di area democratica – almeno a sentir lui - o per Irene Tinagli – parlamentare di Scelta Civica, quindi centrista, ma il contenuto non cambia - il problema è quello della flessibilità in uscita. In parole povere, la disoccupazione giovanile è così alta non perché non si investe più nell’economia e i siti produttivi vengono delocalizzati, ma perché ci sono troppi lavoratori vecchi iper-garantiti, quindi illicenziabili, che contrastano la possibilità di assumere giovani. La soluzione, secondo questi redivivi Chicago Boys, è nello sfoltimento dei diritti dei lavoratori.
Da allora di acqua sotto i ponti ne è passata, e questa idea sicuramente non di sinistra trova applicazione nei decreti licenziati in questi giorni, senza nemmeno però operare quell’atto di giustizia che i Taddei e le Tinagli preconizzavano: la parificazione tout court dei diritti. E sì, perché la legge renziana per antonomasia, in questo senso è monca, e non è assolutamente vero che restituisce giustizia a quanti finora hanno subito solo torti, almeno se lo scenario è quello da sempre descritto dai pensatori renziani, un contesto nel quale si è operata una rivoluzione linguistica sul modello di Orwell per cui il termine padroni sfugge dal lessico e muta di senso: esistono solo lavoratori, anche se alcuni di essi sono decisamente sui generis.
Tanto per capire come funzionerà il Jobs Act, facciamo l’esempio di un giovane che si affaccerà sul mondo del lavoro dal primo marzo, dotato di buoni studi, non necessariamente un lavativo, capace. Innanzitutto, sostenere che verrà assunto subito con un contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti è una balla sesquipedale, solo chi non conosce le aziende ed il mondo del lavoro può crederci, chi invece ha una discreta esperienza si guarderebbe bene anche solo dal pensarlo, e ciò perché prima che Renzi licenziasse i decreti di questi giorni, il suo ministro Poletti aveva già provveduto per tempo a riformare (parola grossa) i contratti di lavoro a tempo determinato, peggiorandoli, al punto da farci rimpiangere quelli già brutti scritti da un’altra campionessa di riforme fallaci, la prof.ssa Fornero. Il lavoro a tempo determinato poteva essere prorogato non più fino ad un anno con giustificato motivo, ma fino a tre, complessive cinque proroghe, senza che il datore di lavoro dovesse giustificarsi più di tanto. E’ ovvio che con un combinato disposto di questo tipo nessun padrone sarebbe così scemo da assumere il nostro giovane laureato di belle speranze e di migliore volontà a tempo indeterminato, potendolo tenere a bagnomaria per almeno tre anni. Ma se avesse l’ardire di farlo non ne avrebbe a pentirsi, perché con il nuovo contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti, il neoassunto rischierebbe di più che con un sano contratto a tempo determinato. Le tutele crescenti, infatti, proprio perché crescenti, all’inizio non danno nessuna garanzia al dipendente, ma solo vantaggi ai padroni, che per i primi anni possono evitare di pagare i contributi previdenziali (a questo provvede generosamente lo Stato in loro vece) e godere di un consistente sconto fiscale. L’ufficio studi della UIL ha fatto un po’ di conti e ha scoperto che se il neoassunto venisse licenziato già a primo anno compiuto, all’azienda ne deriverebbe un vantaggio economico, l’entità dei risparmi supererebbe abbondantemente l’ammontare dell’indennizzo dovuto per legge. Ma l’ipotesi del licenziamento è quella più catastrofica, in quanto nel frattempo in azienda potrebbero optare per un diversivo, ad esempio un bel demansionamento, lo stipendio rimarrebbe quello ma per mansioni più umili. Fenomeni di questo tipo già avvengono regolarmente nelle aziende che subiscono ristrutturazioni, ma di solito ci si guarda bene dall’evocarle con tale termine. Con le leggi di Renzi cade anche quest’ultimo tabù.
Ma nel Jobs Act non ci sono solo le regole sui licenziamenti, ci sono anche quelle, non meno importanti, che regolano la vita all’interno delle aziende, ad esempio in tema di controlli a distanza, di possibilità per il datore di lavoro di accedere ai dati dei PC in dotazione. E lì il noassunto dovrà fare molta attenzione a cosa fa e come si comporta, perfino una lettera alla fidanzata o una chat improvvisata possono essere carpite dalla security e rappresentare un problema. In più in azienda non tutti i lavoratori saranno uguali, perché ci saranno sempre quelli che godono di qualche diritto in più. Quelli che ad esempio sono stati assunti anni prima con un contratto a tempo indeterminato e basta, potrebbero avere qualche grana se il padrone decidesse di mandarli a casa per effetto delle modifiche all’art. 18 (abolito per i neoaasunti), ma godrebbero comunque di maggiori tutele e garanzie, almeno fino a quando il padrone non deciderà di operare quello che in gergo chiamano spin off, ovvero una cessione di ramo d’azienda attraverso una newco.
Questo tipo di problema, nelle discussioni dei nostri politici, non è stato mai posto, né tantomeno ha dimostrato maggiore acume il capo del governo. Telecom Italia, giusto per citare una delle grandi aziende che più ha atteso e meglio ha accolto i provvedimenti renziani sul lavoro e che ha dichiarato che il Jobs Act potrebbe invogliarla ad assumere fino a 2000 persone, già da anni esternalizza intere divisioni senza colpo ferire. Provvedimenti dolorosi per i lavoratori, senza dubbio, spesso finiti in imprese più piccole che per campare son costrette a rimanere agganciate alle commesse della casa madre, fin quando la casa madre riterrà conveniente appaltargliele. Già da qualche anno Telecom Italia sta cercando di alleggerirsi della divisione Customer Service, composta quasi esclusivamente da operatori dei call center che rispondono alla clientela residenziale. Lo ha fatto rivedendo spesso i parametri di produzione e spostando l’asticella sempre più in alto, minacciando nemmeno tanto velatamente lo spin off se i risultati economici non sono quelli attesi. In questi ultimi mesi ha congelato le operazioni aspettando i decreti del Governo Renzi, fino a quando con un comunicato ha reso nota la sua volontà, ovvero procedere alla societarizzazione della Divisione Customer (ovvero affidarlo all’esterno). La domanda viene spontanea. Le risposte non sono affatto convincenti e spesso discordanti. I lavoratori che passeranno alla newco di prossima costituzione, saranno da considerarsi licenziati e poi riassunti? E se sì, il loro contratto sarà a tutele crescenti? I sindacati territoriali di Telecom Italia sostengono che dal punto di vista contrattuale tutto rimarrà immutato, perché se così non fosse sarebbe chiara e sanzionabile (esistono già sentenze in materia) la strumentalità di un’operazione tesa a liberarsi surrettiziamente e in massa di lavoratori considerati obsoleti.
Questo è quanto sostengono loro. Io mi permetto di nutrire qualche salutare dubbio. Le operazioni societarie che passano per la cessione di un ramo d’azienda, e che quasi sempre terminano con la costituzione di una nuova società nella quale vengono trasferiti i lavoratori considerati di fatto in esubero, seguono passaggi formali ben precisi e non possono derogare alle leggi vigenti. E quella inventata da Renzi è appunto una legge che sanziona il vecchio contratto di lavoro a tempo indeterminato. Che le newco funzionano così non sono io a sostenerlo, ma i fatti. Ricorderete tutti cosa avvenne a Pomigliano d’Arco quando Marchionne decise di ristrutturare lo stabilimento. Creò appunto una newco nella quale riassunse i lavoratori licenziati dalla vecchia, ad eccezione però di quelli iscritti alla CGIL. Ragion per cui l’assioma propagandato in questi giorni secondo il quale i provvedimenti renziani sono innocui per i lavoratori anziani, è quanto di più falso si possa sostenere.

Sabino Saccinto

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Pubblicato il 05/03/2015 h 16:51:17
Modificato il 05/03/2015 h 18:09:28

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