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Rialzati, Italia

Un governo da barzelletta sta gestendo alla sua maniera una delle crisi più gravi del dopoguerra, impotente di fronte ad una situazione che non comprende. E’ in crisi un modello di sviluppo basato sulla globalizzazione e sulle sinergie imperfette.

Il socialismo reale è stato dichiarato defunto nel 1989 con la caduta del muro di Berlino e con l’abbattimento della cortina di ferro. Potrebbe arridere stessa sorte al capitalismo? La questione non è così semplice da sciogliere. Se anche il capitalismo dovesse manifestare chiarissimi segni di cedimento e fosse vicino all’inizio di una caduta, la sua fine, per essere sancita, dovrà passare necessariamente attraverso un’alternativa valida, in mancanza della quale saremo tutti costretti a sopportarlo per un tempo indefinito, nella speranza, magari vana, che si autocorregga.
Quello che sta accadendo nei giorni nostri è una manifestazione alquanto chiara dell’impasse che la società occidentale ad impronta capitalista sta vivendo, riassumibile in un refrain ricorrente, una frase dal senso misterioso ed inafferrabile come una chimera, che si riverbera di bocca in bocca passando per quelle più autorevoli: cresciamo poco.
Siamo tutti adulti e da crescere (almeno fisicamente) non abbiamo più. Si parla del famigerato PIL, quanto tutti noi insieme produciamo in un anno. La litania che economisti, banchieri centrali, autorità politiche ripetono in continuazione non cambia.
Il Presidente della Repubblica Napolitano ha definito drammatici i dati sulla crescita, specie se visti in prospettiva e rapportati all’aumento del debito pubblico. L’Italia è come una grande famiglia indebitata fino all’osso che per anni ha fatto fronte alle sue esigenze ricorrendo ai prestiti, onorati fin quando il reddito del capofamiglia lo ha permesso. Oggi sembrerebbe che la nostra nazione sia prossima al tracollo economico. Per mantenere lo stesso tenore di vita siamo costretti a sopportare spese sempre maggiori senza riuscire a coprirle completamente, in più i nostri creditori incominciano ad avere seri dubbi sulla nostra solvibilità. Crescere diventa l’imperativo categorico, ma come si fa visto che nessuno ha trovato ancora la ricetta giusta?
L’Italia è una nazione particolarmente sfortunata. Somma a problemi antichi una classe di governo particolarmente inetta. L’esempio della cicala e della formica calza a pennello, solo che i destini contrapposti dei due insetti nella nostra nazione diventano guaio comune: da noi albergano insieme governanti cicale che hanno dato fondo alle scarse granaglie sottratte ai soliti noti, e formiche taccagne che si sono arricchite a spese di altri e che ora si chiamano fuori dal loro turno del dare, preferiscono far approdare il bottino in lidi più sicuri.


Nel 2008, l’attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, vinse nuovamente le elezioni dopo due anni dalle precedenti e meno di due dall’insediamento del secondo governo Prodi, caduto fragorosamente dopo essere stato costretto alla canna del gas dei senatori a vita per garantirsi un minimo di agibilità. Lo fece agitando uno slogan piuttosto efficace, come è nella sua tradizione: Rialzati, Italia. Secondo la propaganda berlusconiana, il governo di Centrosinistra aveva esagerato con le tasse (al Ministero dell’Economia vi erano due tipi non facili come Visco e Padoa Schioppa) affossando, sostenne Berlusconi, l’Italia; pertanto era necessario voltare pagina e farla rialzare. Tralascio i provvedimenti (per lo più di annullamento dei precedenti presi dal Centrosinistra) con i quali il Berlusca spacciò per miracolo una situazione già difficile, sta di fatto che a distanza di tre anni da allora, l’Italia non si è affatto rialzata, anzi è precipitata fino ad un passo dal baratro del default, e quello slogan suona, ai giorni nostri, quantomeno grottesco. Il governo Berlusconi (il peggiore della storia repubblicana, e non solo) ha le sue grandi responsabilità per talune scelte. Ma, ciò detto, non è tutta colpa sua, rimane qualcosa di intrinseco al sistema per quanto sta avvenendo oggi, proviamo a rintracciarlo.

Il capitalismo dei nostri giorni non è solo un sistema economico, ma è soprattutto politico e filosofico e sta mostrando ora tutta la sua inadeguatezza, come accadde con il comunismo due decenni fa. Il capitalismo riuscì allora vincente nella sua sfida in quanto mantenne la promessa di assicurare maggiore benessere, e non vi era dubbio che le condizioni di vita delle popolazioni occidentali fossero migliori in virtù di un sistema più efficiente che stimolava la creatività e l’impegno e garantiva, al contempo, una maggiore e più soddisfacente ridistribuzione della ricchezza. Ma la fine del comunismo cambiò, stranamente, anche la natura stessa del capitalismo, eliminò i freni inibitori e l’obbligo di essere più convincente che ne avevano contenuto gli eccessi. La dimostrazione si ebbe subito dopo con quello che, con una metafora meccanica, fu chiamato turbo-capitalismo, che rivelò quanto i suoi valori non fossero di certo quelli della solidarietà. Così anche un’altra parola magica del lessico neo-liberale (il merito) subì qualche contraccolpo, visto che iniziò quel processo di concentrazione della ricchezza nelle disponibilità di individui più capaci a far soldi con la speculazione che a determinare ricadute generali positive per l’economia. Ma quella era la finanza che, come è noto, prospera grazie all’avidità degli uomini, fenomeno naturale e in certi limiti tollerabile. La patologia è sorta dopo, quando i grossi gruppi industriali si son lasciati coinvolgere dalla mera logica del profitto ed hanno abdicato alla loro responsabilità sociale. Hanno puntato alla moltiplicazione del capitale senza limiti da perseguire lungo due binari: la finanziarizzazione spinta dell’economia e la delocalizzazione della produzione.

Nel 2008 scoppiò la bolla dei mutui sub-prime. Fu la prima avvisaglia, anche se non fu analizzata nei suoi aspetti più profondi, di quell’azione autodistruttiva del capitalismo che lo porterà a divorare se stesso, a bruciare le sue risorse. La finanza può avere una sua utilità ed una sua accettabilità etica quando riesce ad essere funzionale al capitale, a fare in modo, cioè, che vengano reperite risorse da investire nella produzione. La crisi del 2008 segnò il culmine di uno stato di fatto che si trascinava da anni. Non dimentichiamo che in passato le bolle speculative avevano riguardato i titoli quotati della new-economy e che, prosciugati quei pozzi, la finanza internazionale aveva già virato verso le materie prime, in specie alimentari (grano e riso), creando serissimi problemi alle popolazioni povere del Terzo Mondo. All’epoca alcuni servizi giornalistici diedero conto della Borsa di Chicago, di quella dove si compravano e vendevano immensi stock di cereali realizzando guadagni incredibili e causando quella crescita smisurata dei prezzi.
L’esplosione della bolla dei mutui sub-prime non fu che la certificazione della deriva iniziata qualche anno prima. Dopo aver speculato in maniera assolutamente amorale su beni essenziali come quelli che servono alla sussistenza umana, gli squali del capitalismo presero di mira la casa, non direttamente il suo valore (le bolle immobiliari sono pericolose), ma il debito che gli acquirenti meno affidabili avevano contratto per acquistarla. Il fatto che il sistema finanziario, che dovrebbe essere di stimolo per l’economia e non la sua tomba, fosse arrivato a tanto, dimostrava che il capitalismo era entrato in una fase patologica nella quale non riusciva più ad onorare quel patto con gli individui che lo aveva reso in qualche modo vincente sul comunismo. La crisi del 2008 fu definita di sistema, affermazione condivisibile, ma ambivalente: si può pensare che la macchina della finanza abbia avuto un blocco interno recuperabile o che invece il sistema abbia mostrato i suoi difetti innati e celati artificialmente fino ad allora, ora ad un punto di non ritorno. Personalmente sono portato a ritenere più fondato questo secondo punto di vista.
Nel 2008 l’epicentro della crisi fu in America ed ebbe come oggetto le banche e quanto ruotava intorno ai titoli tossici. Ogni analista avvertito l’avrebbe prevista qualche anno prima, quelli più radicali l’avrebbero pronosticata sul nascere. Ai giorni nostri è cambiato l’epicentro (l’Europa anziché gli Stati Uniti), non sono cambiati i soggetti (visto che la colpa è sempre degli speculatori), e l’oggetto è da caccia grossa: si gioca sul debito sovrano dei paesi meno competitivi della zona Euro. Si tratterà solo di un fatto speculativo, come sostengono alcuni, ma che sta mettendo in luce un’evidenza drammatica, anch’essa prevedibile, ma ignorata fin quando il sistema in qualche modo ha retto. Spuntano i frutti malati di quel combinato disposto tra la finanziarizzazione dell’economia e la delocalizzazione dei siti produttivi. Segna il fallimento di quella pratica mai teorizzata esplicitamente, ma che è nella realtà delle cose, per cui un’entità - magari non deliberatamente organizzata, ma portata tutta alle stesse scelte per convenienza e imitazione - ha deciso di suddividere il mondo tra paesi produttori di beni e paesi consumatori degli stessi, senza porsi il quesito di come i paesi ex-produttori, ora consumatori tout-court, possano poi sostenere i loro livelli di consumo se i redditi si assottigliano. La prova del nove è nell’affanno con il quale gli stati colpiti dalla crisi (ma non solo) tentano di rientrare con manovre di contrazione della spesa pubblica che puntualmente si rilevano fallaci perché deprimono la crescita e il rilancio dell’economia. La realtà è che la tanto invocata crescita non potrà mai avvenire se non si trova un rimedio alla crescente disoccupazione, in specie quella giovanile, che mai come in questi anni ha subito una così forte contrazione. Il guaio è che pure a volerli occupare tutti, non ci sarebbe dove allocarli se non nello Stato, visto che i grandi gruppi privati hanno già da tempo abbandonato i paesi europei dell’area mediterranea per spostare le fabbriche prima in Albania, poi in Romania, in India e in Cina. Lo squilibrio è visibilissimo nei rapporti internazionali, in quei consessi tipo FMI dove da una parte del tavolo siedono i paesi PIGS (definizione coniata dagli anglosassoni per racchiudere in una sigla, che in inglese significa anche maiali, le nazioni con peggiori fondamentali economici), dall’altra quelli virtuosi, preoccupatissimi per il rischio domino o per le loro banche traboccanti di titoli di stato PIGS, al centro i gongolanti, ma non troppo, BRICS (Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica) pronti a bacchettare i primi per la loro incapacità di tenere i conti in ordine e i secondi perché non in grado di elaborare piani di rientro efficaci, il tutto a passare per la cruna di quella crescita impossibile. Il punto, filosofico oltre che economico, è proprio lì. Cosa si intende per crescita? Esiste un modello politico e scientifico di sviluppo a cui rifarsi, o tutto è lasciato ai signori dell’economia? Il problema è che se per crescita si intende semplicemente un numero destinato ad aumentare indefinitamente, siamo fuori dalla realtà. Il nostro mondo ed il nostro pianeta sono limitati, ed il fatto che popolazioni una volta povere e sfruttate sembrano avere in mano il pallino dello sviluppo economico, non può che riportarci a molto più miti consigli. La crescita, per come la intendono a Wall Street, potrebbe raggiungere cifre vertiginose, ed in parte è già così se si considera che il prodotto di questa filosofia è un’incredibile messe di titoli, cosiddetti tossici, multipli del PIL mondiale. Ciò non ha prodotto ricchezza, ma solo speculazione. Il valore più tangibile del benessere per uno stato, è rappresentato da altro: da beni di consumo materiali e patrimoniali e dalla capacità di riuscire a far fronte ai propri bisogni in maniera conveniente per tutti. Ma possiamo permettercelo prima che il nostro pianeta esploda? Potrebbe mai sopportare la Terra, ad esempio, la motorizzazione di massa del popolo cinese o indiano? O riuscire ad emulare modelli di vita occidentali? Chiaramente no, non sarebbe nemmeno ipotizzabile. Non ci rimane, a questo punto, che rimettere in discussione il nostro modello di benessere o lasciare che una parte di esso venga assunto da altri a nostro sacrificio.
La grande torta del PIL mondiale non è infinita. E’ chiaro che se la fetta conquistata dai paesi una volta poveri si ingrandisce, da qualche altra parte essa risulterà più minuta, così come non è assolutamente pensabile di pretendere che il paradigma che qualcuno ha alimentato in questi anni possa reggere ancora. La nostra classe dirigente lo capirà mai? E’ lapalissiano che non si possono lasciare le leve del comando alla sola economia, che agisce più per impulso che per raziocinio. E’ necessario che sia la politica a riappropriarsi di un ruolo ormai negletto e condurci verso quella presa di coscienza necessaria per una svolta epocale, in cui i canoni di sviluppo ed i parametri di valutazione fin qui concepiti, vengano rivoltati come un calzino, pena il disordine sociale. L’idea di un certo capitalismo mondiale di sfruttare questa sorta di sinergia imperfetta in cui conviene produrre dove la manodopera è a costi molto contenuti, per rivendere laddove la manodopera non esiste più, si sta rivelando un potentissimo fattore di blocco che può solo provocare una paralisi generalizzata.

Sabino Saccinto

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Pubblicato il 12/12/2012 h 22:59:22
Modificato il 12/12/2012 h 23:01:14

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