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Fantapolitica vers. 3 Il Generale De Gaulle avrebbe detto “il vostro programma è troppo ambizioso, miei cari”, ma a Canosa qualcuno ci crede e spera perfino di trovare il bandolo della matassa.
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Fantapolitica vers. 3 Quali azioni un paese di poco più di 30 mila anime potrebbe mai metter in campo per contrastare la povertà crescente degli anni della peggiore crisi del secondo dopoguerra? Poche, se non nessuna, perché la crisi è mondiale ed ha radici profonde, e in un sistema dove l’interdipendenza condiziona anche la dieta alimentare di ognuno di noi, è molto improbabile che un sindaco, i sindacati, qualche associazione di categoria, possano, anche se tutti insieme, tentare di invertire la tendenza.
Questo il tema di un incontro in sala consiliare di giovedì 3 marzo. Tutti preoccupati per la crisi, indubbiamente; tutti a snocciolare le cifre della povertà che avanza, del record storico degli ammortizzatori sociali, della crisi perenne del comparto agricolo, del commercio che non tira, dell’artigianato che segna il passo, dell’industria che nel frattempo delocalizza. Un mare di buone intenzioni e le proposte rimandate alla prossima riunione. Un’occasione che in qualche modo ha richiamato una folla insolita, fatta di lavoratori, o ex, in attesa di sapere cosa venisse partorito in concreto in quel think tank di teste d’uovo, tutte abilissime nell’analisi, ma che quando si è trattato di proporre qualche soluzione, non son riuscite a far nulla di molto diverso dal già detto: l’OP, organizzazione di produttori, formula che da circa un paio d’anni Francè ripete come un mantra, nella speranza che gli agricoltori locali ci credano.
Di certo suscita meraviglia lo sconcerto di qualche consigliere comunale che proprio non si convince di come mai nessuno si decida a dir di sì al sindaco, nonostante abbia proposto perfino fideiussioni comunali per tentare di incoraggiare i diffidenti agricoltori a fare massa unica. Stranezza resa ancora più evidente dal feeling particolarissimo con il mondo agricolo che questa amministrazione può vantare, dopo che nel 2007 gli agricoltori abbandonarono i partiti tradizionali per costituire una lista civica a sostegno di Francè sindaco rieletto. Operazione riuscita ma malato morto, se oggi quella fiducia non si riesce a concretizzare nell’adesione ad un qualcosa che il sindaco è ormai stanco di ripetere ad ogni incontro. Evidentemente, tracciare un segno su una scheda elettorale non è come rischiare gli “sghei” in avventure che a molti appaiono come il fumo negli occhi.
Immancabile la tirata d’orecchi di chi sta dall’altra parte ed ha serissime difficoltà a sbarcare il lunario proprio per colpa di quella crisi che preoccupa tutti, ma che impoverisce di più i più poveri, quegli stessi che oltre ad aver perso l’abitudine di trovare un lavoro, stanno progressivamente perdendo anche quella di mettere insieme tre pasti al giorno. Reclamano misure urgenti, perché i morsi della fame non attendono, e con analisi e riflessioni non si porta a casa nemmeno un misero piatto di lenticchie.
Fanno un certo effetto quelle bella facce pasciute che declamano, sentenziano, deducono e poi magari concludono che la situazione è seria, che bisogna avere unità di intenti, che almeno ora val la pena di filar d’amore e d’accordo. Benissimo, se non fosse che poi le verità sottaciute prima o dopo vengono a galla. Capita sempre che qualcuno abbia il coraggio o l’ingenuità di gridare che il Re è nudo. Questa volta ci ha provato Damiano, puntando il dito accusatore contro l’assessore all’agricoltura. Quelli come lui in campagna non li prendono più come braccianti, perché costano troppo rispetto a quegli altri, i rumeni, che si accontentano di 25 euro al giorno e sgobbano come muli. La sua paga di 40 euro è ormai una chimera, e lui è decisamente fuori mercato: out, direbbero gli americani.
E ascoltando chi di quel convegno è in qualche modo l’oggetto, si scopre che la verità è tanto semplice quanto antica, che non c’è nulla di assolutamente mistico o oscuro in questa crisi, il grande Moloch divoratore di uomini e risorse. E’ il solito antico vizio del fare i furbi, solo che in questi anni è cresciuto il cinismo, l’unico vero sentimento che rende insuperabili certi ostacoli. Lo spiega bene un cassintegrato dell’industria delle calzature, quella, una volta mitica, di Barletta che negli anni “80 segnò decisamente il benessere del comprensorio. Oggi, quel che è rimasto della sua azienda non c’è più, hanno dichiarato la cessata attività per crisi e mandato a casa i dipendenti dopo essersi assicurati gli ammortizzatori sociali, almeno quelli. Ma il cassintegrato ci racconta che la crisi aziendale non è proprio una crisi, è solo il paravento per nascondere una realtà un tantino diversa fatta di stabilimenti che chiudono in Italia per consolidarsi all’estero, in Albania. Racconta che lì ce ne sono circa 600 di operai che fabbricano le stesse scarpe che fabbricavano loro, con una qualità tale, però, da costringere i barlettani a doverle ricontrollare tutte. Il buon senso avrebbe suggerito anche in quel caso di rivedere l’intero processo produttivo, cosa mai avvenuta. Certo, qualcosa sopravvive di queste aziende, sono le strutture commerciali, quelle direttive o di supporto, qualche ridotta operaia che serve a garantirsi, commesse permettendo, un prodotto di qualità superiore per giustificare ancora, per quel po’ che è possibile, il made in Italy.
E’ così che il nuovo capitalismo, quello turbo legato a filo doppio con la finanza, detta le regole del gioco. Quando qualcuno osserva che il lavoro è finito, si fa sfuggire un particolare fondamentale, ovvero che dal lavoro scaturisce la produzione di beni materiali. E i beni materiali non sono mai stati così tanti come oggi, i negozi traboccano di elettrodomestici, automobili, alimentari, chincaglieria di ogni genere. Se esistono, qualcuno li produce. Ad esser cambiati sono i luoghi della produzione. Non più il vecchio Occidente, ma nuove masse di lavoratori più docili e sottopagati che non avranno mai la possibilità di godere di ciò che producono, perché qualcuno ha deciso che deve esistere una società di produttori (quella loro) ed una di consumatori (la nostra), e che gli occidentali sono ancora sufficientemente ricchi da poter sostenere, con i loro consumi, le produzioni delocalizzate. Il tutto a vantaggio di un soggetto solo: il capitale.
E’ un modello non sostenibile che già scricchiola. L’unica previsione logica possibile è il progressivo impoverimento, quel livello critico dopo il quale non vi potrà che essere la rivolta ed il rovesciamento di un sistema. Le reazioni di alcuni quella sera lo hanno dimostrato plasticamente: ”Voi ragionate comodamente seduti e vi mostrate preoccupati. Probabilmente sarà anche sincero il vostro stato d’animo, ma altrove qualcuno ha già esaurito la pazienza e non è detto che sarà ancora disposto a rimaner tranquillo”.
Sta già accadendo, le rivolte contro certi dittatori nordafricani sono di questi giorni, ma non avvengono per caso adesso. Oggi, alla privazione della libertà tipica di tutti i regimi, si aggiunge anche la fame, l’assoluta mancanza di speranza. E’ una molla alimentata dall’ingiustizia materiale, da una parte si muore di fame, dall’altra si specula perfino sul costo del grano, del riso. Mai come adesso, anche nei paesi occidentali, si affermano ideologie di destra che trovano normale l’attuale distribuzione della ricchezza, sempre più concentrata in pochi individui e sempre più sbilanciata verso la rendita.

Pubblicato il 07.03.11 h 20:49
Modificato il 07.03.11 h 21:21

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